Logo Weiter Schreiben
Cerca
Logo Weiter Schreiben
Pagina iniziale > Benzina

Benzina

Asiye Tekin
© Serdar Mutlu, Dijber û Hevpar, iki kez x 30 x 40 cm, Tuval üzerine akrilik (2024) / © Serdar Mutlu, Dijber û Hevpar, due volte x 30 x 40 cm, acrilico su tela (2024)
© Serdar Mutlu, Dijber û Hevpar, due volte x 30 x 40 cm, acrilico su tela (2024)

 

Com’è possibile tenere il ritmo della guerra? Quanti secondi dopo aver lasciato la canna, un proiettile uccide? In quanti secondi una granata cade nel cuore di una casa? Davanti a questa velocità spaventosa, è possibile che le notizie si diffondano con la stessa rapidità?

A Cizre, alla fine del 2015, tutto cambiava in ogni istante, avere una visione del momento, interpretarlo era sempre più difficile. L’elettricità era saltata, le batterie delle nostre telecamere e dei computer erano quasi esaurite. Quello che facevamo si chiamava giornalismo, ma le risorse per fare arrivare le nostre notizie all’opinione pubblica diminuivano di giorno in giorno.

Avevo ancora un po’ di carica nel telefono. Era una speranza, una scintilla con la quale protrarre il mio contatto con l’agenzia per cui lavoravo, la televisione, il mondo. Ma le immagini… Come le avremmo inviate? Questa città era stata trascinata dall’era dell’alta tecnologia in una guerra di un tempo isolato, dal punto di vista giornalistico, la soluzione era sigillata con la benzina. Dovevo trovare della benzina. In quel momento al centro dei miei pensieri c’era solo quello: non bastava scrivere notizie, ero obbligata a trovare le risorse per diffondere quelle notizie e informare l’opinione pubblica di quello che succedeva ogni giorno.

Qui, ogni secondo trascorso significava la perdita di altre vite. La volontà di far arrivare al mondo la voce di tutto il silenzio di questo tempo si trasformava in me in eruzioni vulcaniche. Quello che vedevo sarebbe stato reale soltanto per me e per i centoventimila abitanti di Cizre, per coloro che vivevano fuori di qui invece, si sarebbe perso nel buio come non fosse mai stato vissuto. Con la loro paura e impotenza, donne e bambini mi addossavano la responsabilità di testimoniare una Storia. Dovevo fare risuonare le loro grida silenziose nell’oscurità della guerra.

Poi d’un tratto mi sono ricordata di una barricata dove avevo già trovato della benzina, è brillata nella mia mente di colpo. Lì, proprio in quel punto avrei potuto trovare le chiavi per soddisfare la mia necessità. Ho preso un profondo respiro, ho guardato la proprietaria della casa in cui abitavamo, una donna alta, di nome Newroz; “Abbiamo una tanica in casa?” ho chiesto, “so dove trovare la benzina”. Capendo che non avrei rinunciato a mettermi in viaggio in cerca di benzina per seguire nuove storie, Newroz è balzata dal posto e in un attimo è tornata con una tanica da cinque litri in mano. Fuori continuavano gli scontri. Ero di nuovo in cerca della verità, qualcosa per cui dovevo avanzare lungo quella strada dimenticando tutto, persino la mia storia, e raggiungere la benzina.

Superati i corridoi che si aprivano all’interno delle case, sono emersa nel silenzio della strada. Se fossi riuscita ad attraversare la perpendicolare, avrei potuto raggiungere il luogo in cui speravo di trovare la benzina. A ogni passo l’ombra della guerra mi sovrastava, ma ho continuato ad avanzare senza esitare neanche un momento. In qualche modo avevo preso coraggio. Non sarei tornata senza benzina.

A mano a mano che proseguivo, i rumori delle esplosioni si avvicinavano; volevo raggiungere la strada di fronte, se fossi riuscita ad attraversare, potevo ritenere di essere arrivata a destinazione. Ma mentre aspettavo l’occasione per passare, il punto esatto in cui mi stavo dirigendo è stato preso di mira dai carri armati del governo appostati sulle colline di Cizre per colpire le barricate che la popolazione aveva eretto per difendersi.

Alla gente del quartiere che si era gettata a terra ai piedi del muro per proteggersi meglio ho chiesto: “Come faccio ad attraversare la strada?” Una donna di una certa età mi ha mostrato uno stretto passaggio tra due muri: “Passa di lì”, mi ha detto. Così mi sono infilata in quel pertugio, avanzavo cercando di proteggermi dai proiettili e dalle possibili cannonate, finché non mi sono ritrovata di fronte a un alto muro di cinta che circondava un giardino. L’ho scavalcato e sono scesa nel giardino. Sull’altro lato c’era un cancello, aprendolo avrei potuto raggiungere la strada in cui volevo arrivare da dietro la barricata. Mentre avanzavo verso il cancello, la casa è stata colpita da una granata. Pezzi di calce e mattoni hanno cominciato a piovermi in testa; non riuscivo a vedere niente per la polvere che mi riempiva gli occhi. Mi sono pulita la faccia e ho cercato invano di aprire la porta della casa. I proprietari dovevano averla abbandonata. Quando ho sentito una seconda esplosione, mi sono fatta prendere dal panico, ho cercato di proteggermi la testa con le braccia. Il mio campo visivo era invaso dalla polvere, ma non potevo aspettare in quel punto. Sono corsa a ripararmi all’interno di un capanno in giardino. Era la legnaia, la casa stava bruciando, se l’incendio avesse raggiunto il posto in cui mi trovavo, sarebbe stato impossibile uscirne. A casa di Newroz il telefono di Asmin, la mia videoreporter, era irraggiungibile. Ho provato comunque a contattarla ma non ci sono riuscita. Disperata, ho cominciato a gridare, sperando che qualcuno potesse sentirmi.

“C’è nessuno? Heval, heval!” urlavo, ma la mia voce era soffocata dal rumore delle esplosioni. Ho chiamato ancora e ancora, nessuna risposta. Quando i combattimenti si placavano e i rumori delle bombe cessavano, gridavo di nuovo; nessuno rispondeva. Mi giungevano voci da lontano ma a poco a poco ho cominciato a pensare che nessuno sarebbe venuto ad aiutarmi.

Ho guardato di nuovo il telefono, c’era campo, perciò ho chiamato immediatamente l’agenzia di stampa per raccontare la situazione. Ha risposto Fatma. Sentendo l’agitazione nella mia voce, cercava di capire cosa stesse succedendo. L’incendio si diffondeva in fretta, la legna nel capanno aveva cominciato a fare scintille. In un primo momento Fatma non riusciva a comprendere la mia preoccupazione. Ho cercato di tranquillizzarmi, le ho raccontato di nuovo la situazione in cui mi trovavo, in maniera più chiara. Alla fine ha capito: “Asiye, mantieni la calma! Chiamo subito qualcuno, faremo di tutto per tirati fuori di lì” mi ha detto. Udendo quelle parole, il tremito provocato in me dalla prima bomba è cessato. Avevo ritrovato il mio sangue freddo. Eppure il frastuono continuava a risuonarmi nelle orecchie. Non mi ero neanche resa conto di essere coperta di polvere dalla testa ai piedi.

La caduta di un’altra bomba non mi ha sconvolta; quello spaventoso fischio udito prima dell’esplosione mi aveva preparata al pericolo. Ero come immersa nella nebbia, il pensiero calmo ma il corpo inquieto. “Se muoio, deve restare una traccia” ho pensato. Ho scattato la mia ultima fotografia e l’ho inviata all’agenzia. Ormai non avevo più paura della morte, mi era solo difficile scomparire nel silenzio di queste terre. “Qui decine di persone innocenti hanno perso la vita”. Mi sono seduta in un angolo, nella legnaia, e ho lasciato che la guerra facesse il suo corso.

Mentre mi scrollavo la polvere dai capelli aggrovigliati, il telefono che tenevo sulle ginocchia ha cominciato a squillare. Sullo schermo è comparso il nome del parlamentare dell’HDP, Faysal Sarıyıldız. Con una profonda preoccupazione nella voce mi ha chiesto: “Dove sei?”

Schiarendomi la gola secca dall’arsura ho risposto: “Per quel che ne so, sono vicina alla casa funeraria. Molte persone hanno visto che sono entrata qui, ma non so descrivere la posizione esatta, perché è la prima volta che entro in questo posto”.

Mentre parlavamo è caduta la linea, perduta nel rimbombo delle esplosioni tutt’intorno. Ho scosso il telefono inutilmente. Per farmi sentire ho ricominciato a gridare con tutta la voce che avevo: “Heval, heval!

Ho pensato che Fatma avesse rintracciato il parlamentare, poi ricordandomi di non avere descritto esattamente dove mi trovavo, sono stata presa dalla disperazione. Nei dintorni continuavano le esplosioni, e io continuavo a chiamare aiuto con tutte le mie forze: “Heval! Heval!”. La mia unica speranza era che qualcuno udisse la mia voce.

In quella zona del quartiere vivevano molte persone ma nessuno che mi sentisse. Il tempo sembrava essersi fermato, la vita era come congelata. Poi il ritmo delle esplosioni è rallentato, il silenzio si è fatto via via più profondo. Uscita dal punto più sicuro della legnaia, ho sporto fuori la testa. Nel cortile della casa c’erano delle scale che non avevo notato prima e che sbucavano nella stradina da cui ero arrivata scavalcando il muro, ma non potevo sapere se i cecchini controllassero quella zona.  Non era sensato uscire senza esserne sicura. Quando ho sollevato lo sguardo verso l’alto, la casa nel cui cortile ero imprigionata continuava a bruciare. Mentre osservavo come si diffondeva l’incendio, ho visto un uomo di mezza età entrare dal balcone posteriore. Forse stava cercando di spegnere le fiamme. Per attirare la sua attenzione gli ho chiesto: “Come faccio a uscire da qui?”

L’uomo ha risposto: “Ehi, stai bene? Cosa ci fai lì? Stai bene, ti è successo qualcosa?” Sentendomi al sicuro mi sono alzata e sono uscita. “Per fortuna non ti è successo niente! Se sali quelle scale, uscirai da dove sei venuta” ha detto. Sono corsa là e mi sono lasciata cadere tra i due stretti muri. Mi sono diretta verso la strada che appariva pochi passi più avanti. Nel punto in cui sono sbucata c’erano molte persone, tutte mi guardavano in modo strano. Erano come sorprese di vedermi uscire sana e salva dal bombardamento. Nonostante tutto, avevo ancora in mano la tanica che avevo preso da Newroz, non l’avevo abbandonata, come se potessi ancora trovare della benzina.

Mi sono diretta verso la casa funeraria tra gli sguardi sconcertati della gente; ho cercato di liberarmi della paura che avevo provato. Uno dei medici volontari mi si è avvicinato, quando mi ha chiesto: “Cosa ti è successo alla gamba? Sta sanguinando!”, sono trasalita sconvolta. Mi sono guardata la gamba, sopra i jeans c’era davvero una piccola macchia di sangue. Presa dal panico ho controllato, ho visto un piccolo graffio sopra il ginocchio. “Vieni, fatti medicare” ha detto il dottore sorridendo. “Dottore, è solo uno sgraffio! Non mi tratti come una ferita”, gli ho risposto. Anche mentre parlavo col medico continuavo a pensare alla benzina. “Non è niente, devo trovare la benzina” ho detto alle persone intorno a me, come se non avessi vissuto attimi spaventosi fino a pochi minuti prima e stessi svolgendo una banale commissione. Sono passata tra le macerie, attraverso anguste aperture in mezzo alle case. Non appena rientrata a casa di Newroz con la tanica da cinque litri vuota in mano, sono trasalita per la voce di Asmin. Doveva aver gettato un’occhiata al bidone e invece di chiedermi cosa mi fosse successo dopo aver visto in che stato mi trovavo, mi ha chiesto senza scomporsi: “E dov’è la benzina?”. Sono rimasta sconcertata da quella domanda, dal momento che ero completamente ricoperta di polvere. Poi Asmin è rimasta in silenzio. Al suo posto hanno cominciato a parlare i giovani parenti di Newroz. Le loro parole riflettevano la pesante realtà della città. Mi guardavano negli occhi come a dire: “Trovare benzina in questa guerra è un miraggio”. Il loro era un invito mescolato alla derisione; mi esortavano a confrontarmi con la realtà, mi hanno come strinto il cuore con del filo spinato. Ma ho taciuto. Sapevo che dicevano la verità, eppure il mio sforzo di trovare la benzina era una ricerca di speranza in mezzo a tutto quel caos. Ho guardato quei giovani dagli sguardi biasimanti.

“Sei uscita di qui con il fare di un eroe e sei tornata come un soldato sconfitto. Guarda in che condizioni sei!” ha detto Asmin, un po’ pungolandomi, un po’ ridendo del mio stato. Anch’io ho cominciato a ridere di me.

Presto siamo tornate al nostro lavoro quotidiano. Abbiamo cominciato a rimuginare su come inviare il servizio che avevamo realizzato. Ho deciso di ripartire in cerca di benzina. I giovani parenti di Newroz hanno detto che a casa loro ce n’era un po’, ma che accendevano il generatore soltanto la sera, per ascoltare il notiziario e collegare l’apparecchio di una persona che soffriva di insufficienza renale. Perfino questo per noi poteva essere abbastanza, avevamo la speranza di poter inviare all’agenzia le nostre notizie. Insieme ai giovani parenti di Newroz siamo andati a casa loro. Una volta acceso il generatore, Asmin ha cominciato a inviare il servizio che aveva realizzato. Approfittando del fatto che gli scontri si erano fermati per un attimo, io sono uscita di casa per cercare di nuovo la benzina.

Ero convinta di poterla trovare. Era un posto in cui l’avevo già presa in passato. Arrivata lì, ho visto dei giovani resistenti in civile. Ho raccontato loro quello che mi era successo solo quattro ore prima in quello stesso luogo. Stavo parlando di quando provavo a farmi sentire gridando con tutta la mia forza dal luogo in cui mi ero rifugiata, quando mi hanno interrotto: “Ah, ma eri tu?” Sembra che mi avessero sentito.

“Se avete sentito perché non siete venuti ad aiutarmi?”

Ero molto arrabbiata. Un giovane alto ha risposto ridendo: “E come? Mentre cadeva una bomba su ogni metro quadro?”

Ho taciuto. Aveva ragione. Se avessero provato ad aiutarmi sarebbero stati certamente colpiti. Non c’erano dubbi. Io valutavo l’accaduto soltanto dal punto di vista della situazione in cui ero finita. Come se avessi considerato quei giovani i miei salvatori.

Dopo una breve conversazione con loro mi sono diretta verso il punto in cui pensavo di trovare la benzina. Mostrando la tanica che avevo in mano, ho detto loro cosa stavo cercando. Ma la tristezza apparsa sui loro volti mi ha pervaso prima ancora di ricevere la risposta. Hanno detto che non avevano più benzina, che le loro scorte erano finite da due giorni. Il pensiero che i miei sforzi del mattino fossero andati a vuoto mi ha angustiato ulteriormente. Anche soltanto pochi litri potevano essere una consolazione, e invece non ne era rimasta nemmeno una goccia. E da due giorni.

Proprio mentre ero presa dallo sconforto, qualcuno tra la folla mi ha chiamato. Doveva avermi sentito. “Io ho della benzina” ha detto. “Se ne avete bisogno posso darvela.” Davanti a questo gesto inaspettato sono rimasta un attimo interdetta, poi ringraziandolo ho accettato la proposta. Le difficoltà vissute fin dal mattino cominciavano a trasformarsi in un ricordo ridicolo. Quando ho preso i cinque litri di benzina mi sono accorta di quanto si possa essere felici con così poca cosa. Cinque litri di benzina… Sono tornata subito nella casa con il generatore. Era ancora in funzione. Vedendomi con la benzina in mano tutti hanno sgranato gli occhi.

Con il generatore acceso, la casa era in trambusto. Qualcuno veniva con una ciabatta elettrica, altre persone erano in fila per caricare il telefono. Ci saranno state almeno trecento persone; tutte con lo stesso obiettivo: ricaricare al più presto i telefoni per non perdere i legami con il mondo esterno. Noi abbiamo inviato all’agenzia il nostro servizio e, leggermente sollevate, abbiamo messo in carica le batterie della telecamera e dei telefoni.

Prima di ripartire in cerca di notizie, abbiamo stabilito un piano per l’utilizzo della benzina. Il generatore sarebbe stato acceso soltanto nelle ore in cui dovevamo inviare il nostro lavoro all’agenzia, così avremmo economizzato sulla benzina e fatto risparmiare tempo agli altri abitanti del quartiere. Consegnata la benzina ai proprietari della casa, li abbiamo salutati e ci siamo separati. Dentro di me brillava una luce di speranza che non sentivo da molto tempo. Nonostante tutto, vivevo la gioia di aver potuto inviare notizie da dentro la guerra. Lasciando quella casa, ho pensato a tutte le persone che avevamo messo in contatto. Tutti coloro che avevano ricaricato i telefoni avrebbero potuto comunicare con i loro cari che vivevano fuori dal blocco e dire che stavano bene.

Avviso sui cookie di WordPress da parte di Real Cookie Banner